La persona al centro: Simone Salvagnin, il lavoro, il G7 e l’inflazionatissima inclusione

La persona al centro è il tema di questa chiacchierata non convenzionale con Simone Salvagnin, atleta paralimpico della nazionale italiana di paraclimbing, nonché portavoce della carta dei disabili ONU, ma è anche e soprattutto un lavoratore per metà impiegato e per metà libero professionista. 

Lo abbiamo contattato, in effetti, proprio per approfondire con lui la questione della disabilità (nel caso specifico, sensoriale) in relazione al lavoro, uno degli argomenti pilastro del primo G7 legato alla disabilità (che si terrà a ottobre prossimo), così come chiarito dalla Ministra Locatelli in diverse occasioni ufficiali. 

E sì, abbiamo parlato tanto dell’occupazione, delle opportunità, dell’allontanare il più possibile quell’approccio pietistico e buonista spesso applicato dalle persone normodotate quando ci si riferisce alla disabilità. 

Simone ci ha chiarito senza mezzi termini che l’inflazionatissimo concetto di inclusione non può avere concretezza se si ghettizza, se non si forma quella “amalgama” necessaria perché abbia un senso vero, se non si lavora sul fattore empatico né tanto meno se non si scaccia, normalizza o comprende la “paura”.  

Anche perché – e questo è uno spoiler, un po’ come se vi stessimo anticipando l’ultima frase dell’ultima pagine di un libro amato – quasi fino alla fine della chiacchierata, Simone è sembrato inscalfibile, sempre pronto, combattivo, ma “non è stato facile, ho ovviamente dovuto sbattere di qua e di là con la testa per riuscire a trovare il modo di esprimermi. Mi rendo conto che il mio percorso è molto singolare, non è facilmente replicabile per altri, allora mi viene da domandarmi il perché”. 

È singolare sentirlo da lui: su risorse.news vi abbiamo già raccontato la sua traversata dell’Islanda, o dell’impegno con l’associazione Emozionabile per rendere possibili e ordinarie esperienze incredibili. Eppure, a ben guardare, a margine di un’analisi lucidissima della società, del mondo del lavoro e delle interazioni tra gli esseri umani, a Simone resta la latente delusione di un mondo che va troppo veloce e si dimentica delle cose importanti. 

Intervista a Simone Salvagnin

Qualche tempo fa, abbiamo letto dell’iniziativa “Volare oltre la vista, destinazione inclusione”, un progetto nato dalla collaborazione tra l’UICI – Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti – e Swissport realizzato per favorire l’assunzione delle persone ipovedenti, in questo caso, in aeroporto. La qualcosa ci ha fornito diversi spunti di riflessione che non potevano che essere condivisi con te considerando il tuo impegno con Emozionabile, il tuo essere – letteralmente – ambasciatore di diritti (ONU), e un lavoratore a tempo pieno (oltre che un atleta). 

La prima domanda che mi sono posta è: perché fa ancora così tanta notizia? Perché nel nostro Paese c’è ancora un tabù così radicato legato al mondo del lavoro in relazione alla disabilità? 

S: Innanzitutto, io cerco sempre di pensare le cose dal punto di vista del bicchiere mezzo pieno.  Problematiche e dinamiche complesse ce ne sono tante e come sempre quando le questioni sono complesse non si possono risolvere con pensieri semplici, quindi, a volte potrà sembrare che le mie risposte siano un po’ aperte.

Ad ogni modo, viviamo in un’era fenomenologica a 360 gradi. Prendiamo la parola inclusione: ultimamente è molto usata, a volte anche abusata, sta diventando occasione di articoli o comunque tende a essere resa fenomenologica e poi invece, in realtà, la parola inclusione dovrebbe essere semplicemente una parola con un significato chiaro, che agisce sul sistema sociale. L’inclusione è proprio il fatto di includere quindi non “di accettare”, non di prendere un gruppo di persone da inserire all’interno di un altro gruppo, ma proprio far sì che si crei una amalgama. 

L’inclusione non è solo nei confronti della disabilità, ma di tutto ciò che ha particolarità, di ciò che si differenzia dallo standard. 

Detto ciò, c’è un mondo molto vasto legato all’ambito lavorativo. La disabilità, sicuramente vale per la disabilità sensoriali nello specifico – quella che mi rappresenta, quindi quella visiva – è molto complessa da approcciare in ambito produttivo-lavorativo perché, in primis, la persona che ha disabilità visiva inevitabilmente si relaziona con gli altri con una modalità molto differente.

Se partiamo dal presupposto che gli occhi rappresentano l’organo di senso più sviluppato e utilizzato, oh, scusate!

*Qui Salvagnin si ferma perché fa incursione, nella nostra videocall, Cora, il suo cane guida (riduttivo definirla così), un labrador nero. Accarezzata – anche a distanza – e sistemata la cagnolona, riprendiamo la chiacchierata*. 

Stavo dicendo che la disabilità sensoriale è sempre qualcosa di complesso da comprendere, perché la gran parte della comunicazione relazionale tra le persone è visiva, è legata all’espressione, a un’estetica; quindi è proprio complesso per una persona che non lo ha vissuto in prima persona, e nemmeno con i familiari entrare in relazione.

Simone Salvagnin: “il mondo del lavoro è sempre di corsa

Si richiede un rallentamento. Spesso il mondo del lavoro, il mondo della produttività, è sempre di corsa, deve sempre aumentare i margini, diminuire i costi eccetera. Le persone con disabilità visiva possono essere percepite perciò come un ostacolo; tuttora sono relegate soltanto a determinati ruoli che generalmente vanno molto vicino a quello che era il vecchio centralinista. 

Cercherei, perciò, di focalizzarmi di più sulla percezione che la persona comune ha di chi ha una disabilità visiva. Secondo me, l’ostacolo, lo scoglio da superare, è far capire che anziché cambiare le modalità di produzione (in riferimento a qualsiasi ambito lavorativo, ndr), bisognerebbe renderle solo più inclusive. Poi le cose cambiano quando sei un autonomo o un dipendente. 

Gli chiediamo quindi delle differenze, di quali sono le difficoltà che ha dovuto affrontare. 

Per me la situazione è particolare, nel senso che sono un atleta e che quindi sono anche ambassador e testimonial di alcuni brand.

Però, oltre a essere atleta, ho anche capacità di esprimermi, di raccontare e trasformare quello che è il mio percorso in qualcosa di buono da un punto di vista anche divulgativo, motivazionale e poi questo ha preso anche alcune derive gradite. Tanto che ho potuto svilupparlo nell’ambito di formazione e di consulenza; questa è la parte più del libero professionista dove, in ogni caso, devo essere io promotore di me stesso delle mie potenzialità delle attività che vado a proporre.

Da dipendente, invece, lavoro per un marchio del settore outdoor, nell’ufficio comunicazione e marketing; lavoro a tempo indeterminato per loro dal 2000, con un part-time. Il mio lavoro da dipendente è sempre stato molto in odore di lavoro da libero professionista perché non sono un impiegato classico. 

L’indipendenza e il rapporto con l’altro

Poi ci racconta del senso di responsabilità ben vissuto nella fase di dipendente, perché “la parte di relazioni con i colleghi nel mio caso è sempre stata positiva“, mentre per il lavoro autonomo deve rendere conto a se stesso e il margine di errore deve essere limitatissimo “non ho scusanti”. Allora qui Salvagnin introduce un concetto fondamentale: quello dell’indipendenza. Perché essere in grado di gestire un lavoro per se stessi o per gli altri è di vitale importanza sia per quel che riguarda il mondo professionale, che per le interazioni con gli altri. 

Simone ci dice che la sua esperienza da atleta lo ha molto aiutato in tal senso, ma per chi non ha le spalle larghe come le sue, o semplicemente ha vissuto esperienze diverse, sono numerose le barriere che limitano la possibilità di trovare una stabilità.

Nella disabilità spesso c’è una realtà anche di assistenza molto forte, ed è importante in determinate fasi della vita perché in alcuni momenti è comprensibile che avere sostegno per taluni processi però poi bisogna stare attenti a non cadere nell’assistenza totale” perché poi si rischia di non responsabilizzare mai la persona, di non aiutarla. 

Io gradisco quando vengo riconosciuto per le mie potenzialità, o per i miei difetti, ma non per la disabilità che molto spesso è totalmente impattante e chi ti osserva rischia di approcciare con buonismo e stupore, in particolar modo quando si trova davanti una persona molto performante con disabilità”.

Al netto di tutte le considerazioni possibili sul tema, è indiscutibile che il livello di disoccupazione in Italia delle persone con disabilità, particolarmente quella visiva, è molto alto e non può essere imputabile agli indennizzi, come tiene a specificare Simone, o almeno non in maniera così generica. 

Un modello sociale

Qualche anno fa ho lavorato con l’Unione ciechi di Vicenza, la provincia in cui risiedo, e ho fatto parte di un progetto di collaborazione con l’agenzia Adecco. Ho avuto l’occasione di incontrare sia un gruppo di ragazzi non vedenti che erano iscritti a questo progetto e poi un gruppo di imprenditori che erano interessati a capire. 

Ne è venuto fuori che c’erano ragazzi magari molto preparati da un punto di vista tecnico e professionale però molto ingenui da un punto di vista relazionale e quindi magari non spaventava il loro curriculum, ma spaventava il potenziale datore di lavoro la loro difficoltà relazionale perché avevano avuto poche occasioni di uscire, di vivere“. 

Salvagnin poi elenca poi una serie di pro e contro come ad esempio la possibilità, allo stato attuale, di avere una strumentazione ipertecnologica che agevola l’approccio al lavoro; mentre nei contro ci mette, tanto per citarne uno, l’impossibilità di guidare un’automobile. Qui, lo evidenzia, viene incontro lo smart working.

Insieme

Chiudiamo questa chiacchierata guardando al concetto di insieme, sia inteso come avverbio, sia come sostantivo. Perché Salvagnin sostiene che per arrivare al giusto equilibrio sarebbe importante capire che non devono esistere dei gruppi o dei sottogruppi, ma che le frequentazioni devono essere eterogenee. 

Noi siamo troppo abituati ancora allo standard di giusto o sbagliato. Nel profondo di noi le disabilità appartengono allo ‘sbagliato’. Ricordiamoci che la disabilità può essere temporanea, può essere permanente, può essere degenerativa, può avere varie fasi e ci sono tante disabilità anche invisibili.

È un po’ ipocrita pensare di essere esenti da questo, specialmente in una società in cui l’età media si alza molto”. La standardizzazione della normalità, dunque, è ancora radicata, e anche, se possiamo dirlo, totalmente inadeguata nell’epoca dell’ultracapacità e delle super tecnologie. Un po’ fuori posto, un vero, minuscolo, sottogruppo.

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