Torino la laboriosa, la dinamica e l’innovativa. Torino, l’industria, la ricchezza, ma anche la povertà. Torino che guarda al futuro e che non volta le spalle a nessuno, soprattutto a chi è ai margini. Torino, la città sempre impegnata ed attiva. Anche dal punto di vista sociale. Torino che non dimentica le opere di San Giovanni Bosco, del Venerabile Tancredi Falletti di Barolo, di San Giuseppe Benedetto Cottolengo e di tutti gli altri Santi Sociali che tra il XIX ed il XX secolo si dedicarono, sia nel capoluogo sia in Piemonte, ad attività di beneficenza e ad iniziative sociali in favore degli ultimi.
All’ombra della Mole e lungo il Po c’è una memoria storica senza uguali che ogni giorno ricorda ai suoi cittadini chi sono e che cosa hanno fatto questi personaggi per la città e la comunità. L’esempio dei Santi Sociali, oggi, è portato avanti da associazioni ed organizzazioni di volontariato che sono esempi e modelli. Tra queste, la CPD – Consulta per le Persone in Difficoltà occupa un ruolo da protagonista.
Risorse.news, in occasione della giornata dell’associazionismo, indetta dal Forum del Terzo Settore nella giornata del 28 settembre, ha intervistato il Direttore della Consulta, Giovanni Ferrero, per capire come questa realtà torinese risponde ai nuovi bisogni del suo tessuto cittadino, come si rapporta con i protagonisti della scena sociale e quali saranno le prossime sfide. Perché, a volte, è necessario pure saper interpretare i futuri bisogni dei cittadini, per avanzare delle soluzioni che si riveleranno efficaci, efficienti e funzionali.
Direttore, partiamo dal raccontare CPD e dal suo rapporto con il territorio.
CPD – Consulta per le Persone in Difficoltà nasce nel 1988 dalla volontà di alcune associazioni di diventare un vero e proprio megafono territoriale sul tema della disabilità. Pertanto, inizia la sua attività come coordinamento. Attualmente, con la riforma del Terzo Settore la Consulta per le Persone in Difficoltà è un ETS ODV, con la particolarità che i nostri soci continuano a essere le associazioni, che sono principalmente ubicate a Torino anche se ne annoveriamo diverse in altre città della regione Piemonte. Il rapporto che c’è tra CPD ed il territorio è di due tipi: uno diretto, e si basa sulle azioni che noi svolgiamo nei confronti dei nostri beneficiari; l’altro indiretto, ovvero si manifesta nel rapporto con le nostre socie e i loro beneficiari. Lo scorso anno, come riportato nel bilancio sociale, noi abbiamo svolto azioni per circa 10.000 beneficiari, mentre il gruppo della consulta per circa 240.000 persone. Chi sono i destinatari dei nostri servizi e quali interventi compiamo? Noi nasciamo come un’associazione che opera nel settore della disabilità e svolgiamo diverse azioni che interessano vari settori della società civile, come il lavoro, la scuola, il tempo libero, lo sport e la comunità, intesa come città che ha delle criticità non ancora risolte, a partire dalle barriere architettoniche. Dal COVID-19, poi, interveniamo anche in un settore molto importante: quello della povertà. Oggi, aiutiamo famiglie in difficoltà socio-economiche. Parliamo di circa 1.500 persone che, periodicamente, vengono sostenute e supportate sia con beni di prima necessità sia con la presa in carico. Cerchiamo di risollevarle dalla loro posizione di fragilità, che sicuramente è economica ma a volte si interseca con problematiche culturali, abitative e sanitarie. Quindi, il nostro rapporto con il territorio rappresenta la base di ogni nostra azione, iniziativa o progettualità. Una volta fotografate le esigenze del tessuto sociale, noi cerchiamo di sviluppare azioni che vadano a risolvere le difficoltà notate.
Quando parliamo di rapporto con il territorio, naturalmente, dobbiamo tenere anche dei volontari coinvolti. L’impressione che abbiamo sempre avuto è che a Torino ci sia un terreno fertile per fare crescere il volontariato e che, rispetto a molte altre località dello Stivale, le persone sia molto più propense a dedicare parte del loro tempo libero all’associazionismo e a favorire il bene comune, il bene della loro collettività. È così anche con il volontariato giovanile oppure anche nel capoluogo piemontese ci sono delle difficoltà?
Per noi i volontari sono essenziali, sono i veri protagonisti dell’ultimo miglio, come la consegna del pacco, l’accompagnamento tramite mezzi ed anche la telefonata agli utenti. Il volontario viene in Consulta, innanzitutto, per un discorso di cuore, di generosità, e per occuparsi di qualcun altro, di una persona che necessita di un servizio e pure di ascolto. I nostri beneficiari cercano qualcuno che stia anche a sentire le loro problematiche. Sicuramente, con il lavoro quotidiano che devono svolgere i nostri dipendenti e collaboratori, risulta difficile prestare la giusta attenzione a tutte le richieste. Ecco che, per adempiere a questo servizio fondamentale, ci vengono in aiuto i nostri preziosissimi volontari. Il rapporto che abbiamo instaurato con loro è di tipo amicale, famigliare. Una nostra caratteristica è che tutti i nostri uffici sono aperti, perché non vogliamo creare una divisione tra staff e volontariato.
Anche noi, come molte altre realtà del Terzo Settore, abbiamo difficoltà ad attrarre il volontariato giovanile, ma è una questione generazionale e diffusa in tutta la Nazione. Il nostro campo di intervento, che, a differenza della Protezione Civile, non è quello delle emergenze ma di anziani, disabilità e povertà, non ha molto appeal tra le nuove generazioni. Cerchiamo di ovviare a questo problema con i nostri volontari di servizio civile, i quali ci permettono di essere più vicini al target tra i 18 e i 28 anni, e con il volontariato aziendale. Diciamo pure che queste due forme di impegno sociale ci stanno consentendo di creare un bel gruppo e di abbassare l’età anagrafica dei nostri nuovi volontari.
Torino è la città dei santi sociali ed il volontariato rappresenta un “core” molto importante del tessuto cittadino. La verità è che anche nella nostra città si fa fatica sicuramente a trovare persone che dedicano il loro tempo all’associazionismo, al volontariato e al bene comune. Io credo che negli ultimi anni il volontariato sia cambiato ed è destinato a mutare anche nel prossimo futuro. Una volta viveva di appartenenza e di associazionismo. Oggi, è diverso. Il volontario viene in CPD perché vuole occuparsi di quelle attività e di quei servizi che offriamo alla cittadinanza. Il suo senso di appartenenza è connesso ad un’azione specifica. Può succedere che venga a prestare servizio da noi per qualche ora e, successivamente, si trasferisca in un’altra associazione per fare altre ore di volontariato. Anche questo modo di essere volontario è in linea con il dinamismo e la fluidità della società moderna.
Si parla sempre più spesso da qualche anno a questa parte di welfare aziendale, ma poco di volontariato aziendale. È una caratteristica dell’ambiente torinese? Come lo avete sviluppato e che cosa può darvi questa forma di prestazione volontaria?
Il volontariato aziendale era una particolarità delle grandi associazioni nazionali; ora, per fortuna, si sta avvicinando anche alle realtà più piccole, come noi che operiamo su Torino e nel Piemonte. Come funziona? Le aziende, quelle più innovative, che, oltre alla produzione, pensano sia opportuno restituire qualcosa alla società ed investire in una particolare cultura aziendale, basata su valori positivi, propongono ai loro dipendenti questa opportunità. Per un determinato monte ore, scelgono delle associazioni nelle quali il loro dipendente, anziché lavorare, si dedica al bene comune e al volontariato. Spesso capita che le aziende stabiliscano un budget per l’associazione che riceverà il loro dipendente, affinché costui venga seguito, aggiornato e formato. Anche questa, per realtà come la nostra e più in generale per il Terzo Settore, può essere un’opportunità di fundraising ed un modo per avere una persona che si interessi al volontariato, magari rimanendo nell’associazione anche successivamente. In più, dal lato aziendale, rappresenta un’occasione di conoscenza, sia del territorio sia delle organizzazioni che si mettono al servizio dei cittadini.
Chiaro, anche una simile iniziativa può rientrare tra la responsabilità sociale d’impresa. Dopo aver parlato dei beneficiari, dei volontari e delle aziende, ci sono altri attori protagonisti del panorama sociale: i rappresentanti delle Istituzioni. Da quello che abbiamo percepito dalla comunicazione sociale il dialogo tra voi e gli Enti locali è molto fervido e continuo.
Dato che la Consulta è un soggetto privilegiato anche per le istituzioni, e visti i tavoli e le tematiche che trattiamo, come la disabilità e la povertà, ovviamente abbiamo un rapporto solido che abbiamo costruito nel tempo. All’ultimo evento, la giornata in cui i nostri dipendenti e collaboratori festeggiano i volontari dell’organizzazione, i rappresentanti delle istituzioni sono intervenuti per portare i loro saluti e per ringraziare gli artefici delle azioni a vantaggio dei cittadini. Questa è una forma di riconoscimento per i nostri volontari. Il dialogo con le istituzioni è fondamentale. Noi crediamo che si può cambiare la società quando metti tre soggetti allo stesso tavolo: il privato, il privato sociale e le istituzioni. Non è facile, ma noi cerchiamo quantomeno di provarci.
Portate avanti diverse battaglie, come l’abbattimento delle barriere architettoniche per accedere al Duomo di Torino, ma anche iniziative e progettualità di assoluto valore sociale. Qual è il risultato di cui va fiero, quello che la rende orgoglioso?
Allora, rispetto al fatto di cui hai fatto cenno, ovvero dell’inaccessibilità del Duomo di Torino, siamo ancora in una fase interlocutoria. Vogliamo capire che cosa succederà, anche se l’interesse del Ministero della Cultura e della Ministra Locatelli c’è stato. Il prossimo 5 ottobre, a tal proposito, avremo un incontro con la soprintendenza per cercare di capire quale possa essere la soluzione.
Progetti o azioni in cui il dialogo tra istituzioni, privato e privato sociale ha funzionato? Penso al progetto HPL – High Performance Learning, che è una palestra per il cervello di quei bambini che fanno più fatica ad apprendere. Parliamo del 7% della popolazione. Grazie al privato, rappresentato da fondazione ENEL e Regione Piemonte, abbiamo aperto 7 palestre, quindi sette laboratori, di cui due a Torino e gli altri 5 nelle altre province regionali, grazie pure al coinvolgimento di nuove associazioni che sono diventate nostri partner locali. Lì c’è stato un tavolo congiunto, direi riuscito per due motivi: il primo è che le palestre sono partite proprio in concomitanza con l’avvio dell’anno scolastico; il secondo, invece, è strettamente collegato al fatto che tutti i nostri centri pieni. Questo è un esempio di quanto affermavo prima in merito al dialogo necessario tra tre soggetti distinti per cambiare la società. Noi abbiamo fatto una sperimentazione su Torino, abbiamo coinvolto un’azienda, ossia ENEL con la sua fondazione, e avviato le palestre nell’anno scolastico 2022-2023. Ora, dopo aver avuto modo di valutare quanto realizzato, si è unita anche la Regione, che ha deciso di esportare il modello anche in altri territori. Questo è un grande risultato della coprogettazione.
Le chiedo una riflessione: che cosa significa per lei fare associazionismo E poi, come è cambiato fare associazionismo oggi rispetto a 5 anni fa, quando il Covid non aveva fatto la sua comparsa e stravolto il mondo?
Partiamo da chi fa associazionismo. Sono persone che, indipendentemente dal ruolo ricoperto, mettono la passione davanti a tutto. Non lo fanno per il denaro, né per fare carriera. E quindi, il nostro obiettivo è quello di riuscire a trovare una soluzione ai diversi problemi che vediamo nel nostro territorio. Se non c’è, bisogna trovarla con ingegno ed innovazione. Dopo il Covid, sicuramente, sono aumentate le problematiche. Noi lavoriamo tantissimo e questo non è un bene, perché vuol dire che sono cresciute le criticità. Tutto è più difficile e si sta cercando sempre più di fare coprogettazione. Non è assolutamente facile, perché bisogna coinvolgere anche i volontari e tutti quei soggetti che avranno un ruolo cruciale nello sviluppo del progetto. Sarà sicuramente più difficile, ma i risultati sono più performanti e l’impatto è notevolmente maggiore. Credo che oggi lavorare nell’associazionismo sia più professionalizzante, lo stesso vale anche per i volontari. C’è molta più richiesta da parte loro di essere formati. Si è alzato il livello dell’associazionismo, così come la capacità di rispondere alle esigenze del territorio. Volenti o nolenti, gli interventi delle realtà del Terzo Settore sono strategici, non sono residuali. Lo abbiamo visto con il Covid. Se non ci fosse stato l’aiuto dell’associazionismo, a Torino 25.000 persone, ogni giorno e per tutta la durata del lockdown, non avrebbero potuto mangiare. Dico un paradosso, faccio una provocazione: ogni anno servirebbe almeno un mese di lockdown, perché qualcuno si può ricordare dello straordinario lavoro realizzato e dell’importanza del Terzo Settore.
CPD fornisce servizi ai cittadini, ma qual è il bisogno maggiore del vostro tessuto urbano o quello che avete intercettato e che necessita di risposte immediate?
Allora, il bisogno più emergenziale che la CPD soddisfa maggiormente è sicuramente la povertà. Noi abbiamo famiglie che difficilmente potranno essere occupabili. E i motivi sono vari: ci sono soggetti fermi da anni anche nel loro allenamento professionalizzante, perché prima svolgevano lavori che oggi non si fanno più. Formare una persona non è assolutamente facile, non basta darle delle nozioni. Ci sono poi situazioni di fragilità enormi dietro ad una povertà. C’è chi è non autosufficiente o ha una disabilità grave in casa, quindi un famigliare è costretto a fare il caregiver. È qui che bisogna dare una risposta, e oggi, purtroppo, non abbiamo neppure tutte le risposte, perché molte volte sono a carattere economico, anche se in alcuni casi, come le iniziative di inclusione sociale sviluppate con il Comune di Torino, riusciamo a darle.
Invece, una visione su cui stiamo lavorando, che credo se ne sentirà parlare maggiormente ancora di più nel prossimo futuro, è lavorare con le aziende nel settore della disabilità. Noi crediamo che lo Stato, oltre a promulgare le leggi, oggi riesca a fare poco dal punto di vista del cambiamento culturale in merito al tema della disabilità. Non parliamo solo di numeri e di assunzioni ma di uno switch a livello di visione globale. Noi crediamo che questo cambiamento culturale possa essere innescato dall’azienda perché può parlare direttamente ai propri dipendenti tramite le organizzazioni che lavorano su questo tema. L’intento è far comprendere a tutti che una persona, ancor prima di essere un dipendente, è un cittadino e vive nella società. Così facendo, posso generare quel valore sociale che è fatto di consuetudini, abitudini e favorire un approccio positivo al tema della disabilità. Dal primo gennaio 2004, le aziende saranno obbligate anche a rapportarsi su questo tema. Noi, prima di tutto, pensiamo che è necessario formare e sensibilizzare l’azienda sul giusto approccio, sulla corretta terminologia, su chi sono le persone con disabilità, perché non si può parlare di disabilità senza guardarla. Dopo aver compiuto questo primo passo e compreso tutti gli aspetti, allora sì che si può fare qualsiasi percorso. Questo è un tema su cui la Consulta ci sta lavorando, grazie ad un progetto che si chiama l’Agenda della Disabilità, e che diventerà un argomento di grande rilevanza nazionale.
Chiudiamo così: qual è il valore sociale che gli altri vi riconoscono?
Il valore sociale? Il cambiamento. Ovvero, cambiare le consuetudini su un approccio dei confronti della società che non deve essere più pietistico né sensazionalistico nei confronti dei problemi.