A distanza di un anno e mezzo l’Emilia Romagna si è trovata nuovamente a dover fronteggiare un evento climatico devastante. Dopo l’alluvione del maggio 2023, che contò diverse vittime e decine di feriti, che costrinse il Governo a un intervento straordinario e richiamò la presenza della Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, l’Emilia si è ritrovata nuovamente a dover fare i conti con agenti atmosferici ingestibili dalle conseguenze disastrose.
Oltre 2500 le persone sfollate, strade inagibili, campi deturpati (che equivale a circa un anno di lavoro perso nell’ambito agricolo), fiumi esondati, viabilità messa a dura prova (se si considerano gli spostamenti ferroviari la situazione è a dir poco complessa, in particolar modo per ciò che riguarda le lunghe percorrenze e l’alta velocità): questi elementi e l’allerta meteo arancione hanno costretto la Regione a chiedere che venga riconosciuto lo stato di emergenza (approvato il 21 settembre dal Consiglio dei Ministri)
Gli esperti non hanno dubbi nell’imputare l’enorme portata dei danni al cambiamento climatico, ma ci sono anche altri fattori che determinano fragilità sostanziali, tra queste il la cattiva salute del suolo, aggravato dal processo di cementificazione.
L’importanza della buona salute del suolo
Appurato che i cambiamenti climatici abbiano influito sulla quotidianità delle abitudini dell’uomo, quanto sull’economia, vanno tenuti in considerazione altre specificità che alimentano il pericolo e portano alla registrazione di episodi devastanti.
Il Rapporto “Il suolo italiano al tempo della crisi climatica 2023” redatto dalla Re Soil Foundation intende esattamente rappresentare l’incidenza delle condizioni del suolo rispetto all’inasprirsi degli agenti atmosferici.
Si parte, infatti, dal presupposto che il suolo in buona salute sia multifunzionale, vale a dire, come spiega nella prefazione Maurizio Martina, Vice Direttore Generale FAO, che non è solo un ottimo substrato per le attività agricole (determinazione di uno spazio di economia sempre più in crisi), ma anche un valido filtro per le acque (cosa che va inevitabilmente a regolare il ciclo idrologico, quindi consente ad esempio l’utilizzo dell’acqua potabile), “accumulano carbonio e dunque hanno un ruolo centrale nella regolazione dei gas a effetto serra in atmosfera”, e costituiscono un vasto e variegato bacino di biodiversità.
In pratica è importante imparare a fare una netta distinzione tra la qualità del suolo rispetto al tema più evoluto di salute del suolo.
Il suolo italiano non gode di buona salute
Un dato interessante del Rapporto è il seguente: il 47% del suolo totale italiano non gode di buona salute (l’Osservatorio Europeo per il Suolo). Un numero che di per sé, viste le premesse, vede già svantaggiata la Nazione rispetto ai fenomeni atmosferici che possono abbattersi sulle varie regioni. Secondo l’indagine, le principali cause di questo cattivo stato di salute sono l’erosione (23%) e la mancanza di carbonio organico (19%) seguite da tutte le altre, come la desertificazione.
C’è poi il tema del consumo del suolo provocato dalle coperture artificiali, un fenomeno che nel Bel Paese cresce in maniera importante dal 2022. Basti pensare che proprio nel 2022, il processo ha portato alla “trasformazione del territorio agricolo e naturale in aree artificiali su 77 km2, il valore più alto degli ultimi 11 anni, il 10% in più di quello registrato l’anno precedente”.
Tralasciando per un momento le questioni legate all’economia del settore agricolo, comunque protagonista di questo particolare cambiamento, e magari anche la migrazione verso i centri urbani, altro fattore anche sociale da tenere in considerazione, una criticità importante riguarda le modalità con cui la scomparsa del suolo coltivabile o comunque libero da costruzioni e cementificazione, una modalità disordinata che non consente di trovare un equilibrio.
Questo approccio mal moderato, in un territorio che, come si legge nel documento, ha una “naturale propensione al dissesto”, sviluppa poi la realizzazione di infrastrutture che possono definirsi “esposte al rischio”.
La pericolosità idraulica media
Il tema è ben sviluppato dal Rapporto “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici 2023”, prodotto dall’SNPA (Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente), che individua sul territorio i maggiori fattori di rischio relativamente alla costruzione in determinati territori. “Analizzando i dati della cartografia SNPA – si legge nel documento – risultano circa 5.414 km2 di aree edificate (un territorio grande quanto tutta la Liguria), equivalente all’1,8% del territorio nazionale e oltre il 25% dell’intero suolo consumato”, dettagli che consentono una maggiore chiarezza e presa di coscienza.
Quanto invece alle varie problematiche (ad esempio zone sismiche, rischio frana), salta all’occhio quella inerente alle aree a pericolosità idraulica media.
Sul piano nazionale “il 12,8% delle aree edificate (69.550 ettari) ricade in queste zone”. Proseguendo nella lettura si apprende poi che “la regione con i valori più elevati è l’Emilia-Romagna dove circa il 63% della superficie edificata (33.116 ettari) ricade in zone a pericolosità idraulica media”.
Viene quindi spontaneo fare una valutazione sulle alluvioni che hanno colpito in maniera così clamorosa la Regione. Manca, in generale, una vera e propria cultura in merito alle potenzialità, alle criticità che lo contraddistinguono e al valore del suolo. Qualcosa che andrebbe costruito a partire dalle amministrazioni locali dei piccoli centri, fino ad arrivare alle maggiori aree metropolitane.
Su più ampia scala, regolamentare la cementificazione delle aree verdi, in piena consapevolezza, guardando anche all’impatto che questo fenomeno può avere sui disastri naturali, resta una delle priorità per le realtà che hanno sviluppato i Rapporti analizzati sino ad ora; questo, affiancato alle buone pratiche, come bonifiche e utilizzo ponderato dei materiali organici di scarto, potrebbero mitigare le situazioni drammatiche viste anche negli ultimi giorni tra Emilia Romagna e Marche.
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