“Non dobbiamo sprecare nemmeno un minuto della nostra vita”, Martina Caironi docet. Perché lei, campionessa paralimpica pluripremiata ma “prima di tutto Martina”, conosce l’imprevedibilità, sa che da un momento all’altro ciò che conosciamo può non essere più. Nel novembre del 2007 Caironi è stata vittima di un incidente in motorino che le ha portato via un arto; “un trauma” che però ha affrontato pensando a quanto ancora la vita avesse da riservarle.
“Avevo voglia di esplorare, di scoprire il mondo e la forza di volontà che ho avuto in quel momento è arrivata da quell’energia lì che era un po’ rabbia per quello che mi era successo”, ma un po’ era anche il desiderio “di rendere giustizia a ciò che era avvenuto”, insomma, è la storia di una persona che non si è arresa, come quella di tante e tanti che da un giorno all’altro devono fare i conti con una disabilità acquisita propria o di una persona cara. Il suo, però, non è propriamente un racconto comune, perché il nome di Caironi, oggi, a distanza di 17 anni, è scritto nella storia sportiva del nostro Paese.
Martina Caironi: “Questa è la mia filosofia“
Le abbiamo chiesto, quindi, cosa risponde quando chi vive un’esperienza come la sua cerca conforto, spunti, qualcosa a cui aggrapparsi per ricostruirsi, ripensarsi in una nuova dimensione. “Sono un’atleta, ma prima di tutto sono Martina. Sono una persona con una disabilità e mi capita spessissimo che le persone vengano a me per avere consigli, per avere un input, o per sapere anche come ce l’ho fatta a superare quel trauma. Io racconto di quanto sia stato difficile, ma anche facile perché avevo 18 anni, avevo voglia di vivere; la forza di volontà che ho avuto in quel momento è arrivata da quell’energia lì che era un po’ rabbia per quello che mi era successo”, ma un po’ era anche il desiderio “di rendere giustizia a ciò che era avvenuto”.
“Ho detto ok, ho solo una vita, voglio viverla fino in fondo: e questo secondo me è il punto. Il segreto è pensare di non sprecare neanche un minuto della nostra vita e sapere che è unico e che una volta che è passato è già andato. Questa è la mia filosofia”.
Un minuto, 60 secondi. Gli stessi, o anche molto meno, che le hanno consentito di essere la più veloce nella sua specialità, di mettere a segno record incredibili, di “incazzarsi” – citandola – per un argento, perché quell’oro poteva essere a portata di mano, e quel salto era giusto, più che giusto.
Eppure, il suo palmares trasuda orgoglio: nel 2012 diventa campionessa paralimpica ai Giochi di Londra nei 100 m piani, l’anno successivo mette a segno due ori nei 100 m piani e nel salto in lungo, ai Mondiali paralimpici di Lione. Nel 2015 a Nembro, correndo per le Fiamme Gialle (di cui è membro del Comitato Paralimpico), ottiene il suo primo record mondiale nei 100 m piani con il tempo di 15″05. E poi Tokyo, con gli argenti che potevano essere qualcosa in più (vedi sopra).
Non che il suo percorso sportivo sia stato privo di imprevisti, anzi, ma resta un fatto: la scintilla. Caironi incarna i valori dello sport, rappresenta nella totalità dei risultati, delle prestazioni, ma soprattutto dei gesti e delle parole, una campionessa: una mentalità difficile da spiegare. Perché oltre la competitività, la necessità di migliorarsi, c’è la scintilla. La vita ti piega, ma tu non ti spezzi e torni con la schiena dritta, più di prima. Ecco, è questa la sensazione che si percepisce dopo averla guardata negli occhi, mentre parla del suo cammino, in cui la vita personale e quella sportiva si intersecano spesso.
Abbiamo incontrato Martina Caironi in occasione della X edizione del Premio Città di Roma, riconoscimento che OPES, ogni anno dal 2015, assegna a quelle personalità o realtà che hanno saputo distinguersi in diversi ambiti, tra cui quello sportivo. Caironi è stata premiata nel Salone d’Onore del CONI da Luca Pancalli, Presidente Nazionale del CIP – Comitato Italiano Paralimpico, che per l’occasione ha rivelato alla platea: “Un po’ di anni fa mi avete assegnato questo Premio, oggi mi fate un regalo ben più grande perché mi state facendo il dono di premiare una mia atleta, una grandissima atleta paralimpica e una grande dirigente, Martina”, un importante attestato di stima che anticipa anche il futuro della carriera sportiva di Caironi. Ma procediamo con ordine.
Prima dell’atletica
Quando si ha a che fare con un cambiamento, la cosa che più di altre accende delle spie e mette in allarme è il salto nel vuoto. Un concetto banale, ma l’ignoto rispetto a quanto ‘era prima’ di un determinato momento fa tremare le gambe, mette un limite all’orizzonte.
Prima dell’incidente, Martina praticava la pallavolo: “Ho sempre fatto sport e l’ultimo che ho praticato prima di perdere la gamba era la pallavolo, sport che non ho più praticato a livello agonistico, ma che mi è rimasto nel cuore. E devo dire che questa grande perdita è stato uno dei primi pensieri che ho avuto in ospedale. Davvero”. E quindi il vuoto, il salto. Un altro dolore importante. Metabolizzare un incidente, la perdita di un arto, il coma indotto (durato circa due settimane) e l’impossibilità di tornare indietro.
Poi, però, è arrivata l’atletica paralimpica “che mi ha ridato quella sensazione di sudare, di sentirmi agile come lo ero prima, chiaramente in maniera differente”. Sì, perché spesso si è portati a pensare che vivere una condizione mutata rispetto a quella da sempre conosciuta debba essere transitoria e tradursi in un ritorno. Invece poi le variabili sono tante e la trasformazione è declinata sempre al futuro, mai al passato.
Uno step, l’incontro con l’atletica, a cui Caironi è arrivata tramite “il destino. Mi sento di dire che è stato il destino a portarmi all’atletica paralimpica, perché ho visto delle immagini di atleti nei corridoi dove mi facevano le prime protesi da cammino e ho subito pensato di poter correre. All’inizio non pensavo a livello agonistico, perché non avevo mai fatto atletica come sport; però poi la fame vien mangiando, cioè ho iniziato subito a ricevere medaglie, successi” Martina è quindi arrivata a fare “livello” e poi non ha più smesso “perché ovviamente quando hai dei feedback, delle gratificazioni è difficile smettere”.
Dopo tre anni di adattamento alla nuova vita, alla consapevolezza di dover guardare se stessa da una prospettiva diversa, è arrivata la prima protesi, è arrivata l’atletica con la corsa e il salto.
Dunque, il successo: Londra, Lione, Tokyo… “C’è di mezzo Rio, dove sono stata portabandiera, un grandissimo riconoscimento per la mia carriera. Non mi sono mai fermata, ho continuato sempre. Come Tokyo, nonostante il rinvio per pandemia. E adesso eccomi qua a 34 anni a preparare la mia quarta paralimpiade che sarà a Parigi in agosto”. L’abbiamo dunque conosciuta in un momento clou, importante. Mancano poche settimane ai Giochi di Parigi 2024.
Lo sport: un grande abbraccio
Ma la carriera sportiva, come ci ha spiegato lei stessa, si declina in diversi ruoli. Perché arriva, ad un certo punto, la necessità di formare, di lavorare tra le fila e non sul palco per cambiare le cose.
Caironi si è resa protagonista in scena: difficile dimenticare le immagini del tricolore sventolato alle sue spalle dopo il primo oro, o le prestazioni incredibili celebrate poi anche in team (vi dicono niente le Charlie’s Angels di Tokyo? Vi rinfreschiamo la memoria così: Sabatini, Caironi e Contrafatto… banalmente la tripletta nei 100 categoria t63 – atleti con protesi a un arto – ai Giochi del 2020 – anzi, 2021).
Oggi ci racconta che “lo sport è un grande abbraccio e prende tutto quanto; prende dallo sport per bambini, allo sport per persone con disabilità, all’avviamento e poi arrivi all’agonismo, però l’agonismo è solo veramente la punta dell’iceberg sotto c’è tantissimo da fare. Si è parlato – in riferimento a quanto ascoltato durante la cerimonia del Premio Città di Roma, ndr – di strutture, di accessibilità; questi sono temi molto importanti ed è grazie proprio per esempio l’accessibilità e anche la formazione di personale, di allenatori che possano andare poi a formare gli atleti del domani, che si costruisce un’Italia, un Paese dove non dobbiamo più arrivare con un tasso di atletizzazione, passatemi il termine, inferiore rispetto ad altri Paesi europei.
Il mio lascito, quello che voglio continuare a fare anche nel post carriera è impegnarmi affinché questi diritti vengano dati, soprattutto a partire dall’età base, quindi a chi inizia, per poi arrivare a comprendere tutti quanti, perché ci siamo accorti, soprattutto in pandemia, di quanto lo sport sia fondamentale e non dobbiamo dimenticarcene”.
Sul suo futuro, perciò Caironi non ha dubbi: “Mi aspetta un percorso non propriamente in salita, perché ho già molte porte aperte. Sicuramente, non sarà un percorso facile, perché vengo dallo sport praticato e quando si passa dall’altra parte c’è un mondo di equilibri, un mondo anche politico, bisogna essere preparati. E si sa che per noi donne non basta essere preparate, ma serve sempre qualcosa in più ed è quello che vorrei per il mio domani”.
Spontaneo chiederle qual è quel qualcosa in più: “In questi anni ho cercato di farmi una formazione per esempio a livello internazionale, parlando agli atleti, chiedendo quali sono le esigenze. Non è così scontato riuscire ad entrare nei meccanismi decisionali, di chi fa le leggi nello sport, di chi decide il destino degli atleti.
Un percorso graduale che ho iniziato anni fa, grazie anche alla fiducia del Presidente Luca Pancalli che fin dai miei primi passi mi ha voluta prima in Consiglio e poi in Giunta. Da qualche anno sono rappresentante atleta a livello internazionale, quindi è come se un po’ già avessi preso la mia strada, però ecco c’è ancora tanto da fare. Lo vedremo. Lo vedrete”.
Ricoprire un ruolo richiede, quindi, studio, impegno, capacità. Ma c’è un’altra componente che rende il lavoro di Caironi, sia in qualità di atleta, sia di dirigente affermata (un auspicio e un augurio), di valore: una donna di sport che parla alle future generazioni che, in un modo o nell’altro, ha il compito di consolidare uno status, non sempre scontato.
Donne nello sport: cosa manca?
“Manca, innanzitutto, il riconoscimento dello sport come agonistico per le donne. Manca ancora a livello dirigenziale una buona rappresentanza femminile, come in tantissimi altri ambiti. Visto che sono donna di sport farò in modo che anche questo tassello possa andare al posto giusto. La rivoluzione io mi sento di dire che è iniziata, ma non si fa da un giorno al domani, è graduale. Noi donne dobbiamo farci valere in tutti gli ambiti, è giusto che impariamo, studiamo e poi una volta lì abbiamo gli stessi diritti degli uomini perché così deve essere”.
“Perché le discriminazioni possono essere di tutti i tipi“
Accantonata (ma solo per il momento) la questione di genere, abbiamo analizzato con Martina la Proabilità – termine coniato dal Capitano della Roma Calcio Amputati, Arturo Mariani (ve ne parliamo qui) -, o meglio le abbiamo chiesto cosa ne pensasse, come interpreta a livello semantico e non la possibilità di eliminare il dis privativo dalla parola disabilità e di sostituirlo con un pro che esprime possibilità. Ci dice che lei non ha pronto un neologismo, ma che “quello che posso aggiungere è ‘come’; come quindi io posso fare qualcosa, se tu mi permetti di farlo grazie alla tecnologia, grazie ad un ambiente pensato anche per le persone con disabilità”.
“Io posso essere integrato in società – continua – se tu mi permetti di lavorare e di essere integrato a livello lavorativo senza discriminazione. Quindi è un percorso che inizia dalla persona con disabilità che lotta per i propri diritti, ma deve essere accompagnato dalla comunità che lo circonda perché le discriminazione possono essere di tutti i tipi: possono essere quelle velate, possono essere quelle pratiche, per esempio l’impossibilità di accedere ad una premiazione illustre perché non ce la rampa o l’impossibilità di allenarsi autonomamente e di dover sempre aver bisogno qualcuno che ti aiuti per accedere al campo. Tutte queste cose sono importantissime. Devono venire prima di tutto”. Tutto questo, e ci tiene a specificarlo, va fatto insieme, un collettivo che si muove per un unico obiettivo.
Ausili e protesi: l’impegno di Caironi “bisogna permettere a tutti di vivere“
Un impegno che si traduce poi in azioni pratiche, che richiedono coraggio. Lo stesso coraggio che serve per correre e saltare davanti a milioni di persone, lo stesso che ti porta sul tetto del mondo stringendo una medaglia tra le dita.
“In questo periodo mi sto battendo per cercare di far capire al nostro Ministro della Salute quanto sia importante andare a intervenire lì dove ci sono grandissime lacune per quanto riguarda gli ausili per le persone con disabilità, che si riallaccia ovviamente al discorso appena fatto. Io porto una protesi costosissima che mi viene passata grazie al mio ruolo di sportiva e so che in Paesi europei come la Germania, per esempio, vengono passate dal sistema sanitario nazionale. Ed è stato provato che questo permette alla persona di reinserirsi a livello lavorativo, di prendere meno permessi per curarsi e, in sostanza, nell’arco di cinque anni, quella spesa iniziale che viene fatta per l’ausilio rientra totalmente in circolo nell’economia.
Quindi, questo semplice esempio deve far capire a chi appunto come ministri si occupano quotidianamente di questioni scottanti come bilanci e gestione delle risorse che dietro, ovviamente loro lo sanno ma io lo ribadisco, ci sono persone che tutti i giorni devono vivere, devono uscire, devono fare qualcosa e se lo possono fare sarà meglio per tutti”.
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