“Non è una cosa da donne”: quante volte questa frase è stata rivolta a noi, alle nostre madri o alle nostre sorelle? Quante volte ci siamo messe in discussione perché a furia di sentircelo ripetere ci siamo vagamente convinte che no, quella cosa, “non fosse da donne”? Troppe. Quel tanto che è servito per farci avere la percezione che fosse difficile, se non impossibile, ottenere gli stessi risultati di un uomo nello sport, nel lavoro, nella vita.
Ma il vento cambia, e i tempi pure. C’è chi ordinariamente si muove perché “le cose” appartengano finalmente, allo stesso modo, a tutte, a tutti.
Lo fa, ad esempio, la FIR che con la campagna #IoFaccioLaMaglia (nata nell’ambito dell’attività Woman in Rugby, progetto Erasmus+ Sport che vede impegnate la Federazione Italiana Rugby, la Federazione Rumena Rugby e il Club Sportivo Aurora Baicoi – congiuntamente i “Partner del Progetto”- accanto al Valsugana Rugby Padova, Capofila del progetto) ironizza sullo stereotipo e ne fa ciò che vuole; lo mette alla berlina, lo plasma a proprio piacimento, lo utilizza per lanciare un messaggio chiarissimo alle donne, come agli uomini: lo sport è una cosa seria, serissima e non è né azzurro, né rosa, è sport e deve tradursi in uguaglianza.
Ci ha raccontato di questo impegno specifico e di quello quotidiano della Federazione Cristina Tonna, coordinatrice delle attività femminile FIR.
Intervista
Cristina, la campagna io #IoFaccioLaMaglia, nata per promuovere l’educazione nello sport attraverso lo sport stesso, portare sempre più ragazze ad avvicinarsi al rugby e combattere qualsiasi forma di discriminazione e intolleranza, è originale, particolare, o meglio, lo è il nome che porta: ce lo spieghi?
Nel progetto WIR (Woman In Rugby, ndr) la Federazione aveva da gestire la comunicazione, per cui ci è sembrata una grandissima occasione quella di poter lanciare una campagna. Considerando che il progetto si occupa di abbattere gli stereotipi, abbiamo deciso di lavorare proprio su questo.
Con l’agenzia “Lampi. Comunicazione illuminata” – ideatrice della campagna – abbiamo cercato un canale che fosse meno istituzionale e più giovane. Dunque, per abbattere gli stereotipi abbiamo scelto di utilizzare gli stereotipi stessi, che poi vengono costantemente applicati nella vita quotidiana delle donne, tipo: “vai a fare la calzetta”, “tornatene in cucina”, luoghi comuni legati a un certo stile di vita delle nostre donne di qualche tempo fa. Ti porto l’esempio della guardalinee che ha preso la telecamera in faccia e nessuno si è preoccupato di cosa le fosse successo, ma le è stato subito detto “tornatene in cucina”; accade di continuo alle ragazze che giocano a calcio o a rugby. Non viene preso sul serio quello che fanno, anche se sappiamo che è serissimo. Il gioco è una cosa seria.
Dopo vari tentativi, quindi, è venuto fuori questo hashtag: “#IoFaccioLaMaglia”. Ed è piaciuto perché noi del rugby siamo fortemente legati alla maglia, che sia quella azzurra o dei club. C’è un filo invisibile che lega tutte le giocatrici e tutti i giocatori: il grande senso di appartenenza al movimento. Per cui ci è sembrato interessante legare questi due aspetti, lo stereotipo e il senso di appartenenza. “Io faccio la maglia”, poi diventa “io sono la maglia”, quella maglia che facciamo tutti i giorni con il nostro comportamento e il nostro modo di vivere.
Abbiamo lanciato ufficialmente questa campagna durante la partita del Sei Nazioni maschile a Roma, lo scorso 9 marzo. C’era un’attività in presenza, che è stata molto partecipata, in cui i passanti reclutati – tante donne, ma anche tanti uomini, tra cui gli uomini di FIR (Presidente, vicepresidente e così via) – dalle giocatrici laziali (venute a posta per promuovere la campagna) hanno rilanciato sui propri social la campagna attraverso dei selfie.
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Nei prossimi giorni, in vista del Sei Nazioni femminile, saranno poi le atlete a diffondere ulteriormente la campagna. L’idea è essere una marea e inondare i canali che i giovani prediligono per comunicare.
Ampliando un po’ il focus, ma restando nel campo giovani, WIR prevede diverse attività – educative e informative – nelle scuole. Qual è la risposta? Le ragazze che prospettive hanno? Avvertono la possibilità di un cambiamento?
Il lavoro nelle scuole è certamente interessante. La scuola è il posto dove le ragazze e i ragazzi trascorrono il maggior numero di ore della giornata. Per cui è giusto che andiamo, sono impegnati lì fisicamente ma anche a livello intellettuale e il cambiamento deve essere legato ad aspetti culturali. Il miglior alleato è sicuramente la scuola.
Abbiamo condotto un sondaggio (CLICCA QUI per approfondire) e abbiamo ottenuto grandi risposte da parte delle giovani protagonisti. Sono emerse delle risposte che uniscono le ragazze di diverse età. La survey è stata sottoposta sia a giocatrici sia a non giocatrici e sono arrivate delle indicazioni chiarissime: in primo luogo, lo sport non può in alcun modo intaccare la femminilità, che è una questione propria, personale, un concetto maturo; secondo poi, su 400 intervistate, ognuna ritiene che le scelte vadano fatte in piena libertà, nel caso specifico in ambito sportivo. Anche qui, nonostante la giovane età, per noi è stata una bellissima sorpresa. Sarebbe bello incontrare ragazze sempre così determinate perché significa che lo saranno anche più avanti nel proprio percorso di vita.
E i ragazzi?
I ragazzi piano piano si stanno abituando alla presenza femminile, perché sta cambiando il mondo da questo punto di vista e siamo anche beneficiari di questo. Come Federazione abbiamo sempre fatto dei passi ben ponderati non tralasciando l’aspetto culturale. Per cui, per esempio, in under 14 giocano in categorie divise per genere è chiaro che ragazze e ragazzi non si vedono più, non si percepiscono più come compagni di avventura; spetta a noi allora lasciare i tornei vicini, perché è importante che continuino a viversi.
Quelli più fortunati sono quelli che crescono in club in cui sono a stretto contatto, soprattutto quelli in cui c’è la filiera femminile, così che possano vedersi a vicenda. Condividono un percorso uguale. Non voglio parlare di parità di genere, ma di uguaglianza, di un’uguale opportunità. E questo implica l’impegno anche da parte delle ragazze di prendere sul serio l’attività che stanno facendo. Trovo, comunque, sempre più ragazzi preparati su temi come l’uguaglianza, li trovo più combattivi nei confronti degli stereotipi.
Come si trasmette invece ai genitori questo messaggio? Come spiegate, spesso il rugby, così come altri sport, vengono considerati “da maschi”. Come si cambia questo retaggio?
Dove dobbiamo ancora andare a lavorare, al di là di alcuni spaccati sociali in cui difficilmente si può intervenire, che poi il discorso vale per tutti gli ambiti, sono alcune fasce d’età, come le generazioni precedenti. Ci sono dei retaggi culturali che in qualche modo in passato hanno osteggiato la partecipazione ad alcune attività. In tal senso, abbiamo bisogno che i genitori siano nostri alleati, la comunità è fondamentale. La comunità è composta da genitori, nonni, fratelli e così via.
Siamo certi che nel quotidiano ci sia bisogno di tutti. Anche perché va considerato che sono loro a fare la differenza nella formazione delle ragazze e dei ragazzi. Un genitore oppositivo non fa bene a nessuno. Sono certa, però, che anche il genitore più oppositivo – e ti dico ne ho incontrati pochi – che all’inizio non favorisce l’inserimento del ragazzo nel mondo rugby, dopo ne resta affascinato; è più facile che una figlia o un figlio decidano di lasciare per altri motivi. Vedere la propria figlia, nel caso specifico, crescere felice e contornata da questo ambiente e avere l’opportunità di sviluppare resilienza e determinazione prima del tempo attraverso lo sport, consente di fare un passo in avanti importante anche all’adulto.
Quindi si stanno muovendo dei passi in avanti. Ma quanto siamo lontani dalla meta, da quello sport che mette tutti sullo stesso livello?
Credo che l’accesso per le ragazze sia ancora in qualche modo ostacolato. Basti pensare che ci sono luoghi in cui ancora non ci sono i campi da gioco per poter consentire a tutti di fare sport. Io stessa quando ho cominciato giocavo su un campo di una villa pubblica romana; è una cosa che adesso ricordo con piacere, è stata un’esperienza formativa, ma non avevamo nemmeno le docce. Al contempo, ripeto, la scuola deve essere l’alleato principale, perché una buona educazione sportiva non può prescindere dalla scuola dove i ragazzi trascorrono tanto tempo.
Oltre all’insegnante di scienze motorie, si dovrebbe lavorare sugli edifici, perché ancora oggi i nostri operatori vanno in strutture che non hanno delle palestre, ma delle stanze adattate. Andrebbe ripensato lo sport, bisogna capire che lo sport non è solo quello d’elite, quindi nazionali e così via, ma deve essere un’attività che tutti dovrebbero poter praticare tutti i giorni per il proprio benessere.
Noi possiamo intervenire nel nostro spazio: la cosa meravigliosa del rugby è che ci giocano tutti, anche le persone che hanno un’età più avanzata. Abbiamo gli old, il rugby a cinque, con “discipline” che non prevedono il contatto, cosa che determina un’ulteriore partecipazione. Si gioca non per competere – anche se è una componente che non manca mai -, ma lo fanno perché stanno bene insieme e perché incide sul benessere della persona.
Questo è un altro degli obiettivi della campagna promossa dalla FIR?
L’obiettivo principale è avvicinare quante più ragazze alla nostra disciplina. L’importante è che ci sia più partecipazione femminile. E lo facciamo non perché vogliamo un tesserato in più, ma perché sappiamo quanto sia importante lo sport nella vita di una persona. E poi sì, il nostro sport diventa un’ancora di salvezza nella vita. La squadra diventa la tua seconda famiglia; anche quando smetti di giocare, c’è sempre un nuovo ruolo da reinterpretare, una cosa fantastica perché la comunità del rugby ti consente di non sentirti mai inutile, mai finito, senti sempre che puoi dare sempre qualcosa.
Il secondo principio del nostro gioco è il sostegno, una grande metafora della vita; capita durante la partita che sei stanco arriva la tua compagna o il tuo compagno a sostenerti, bada bene, possono anche essere persone che non ti stanno sempre simpatiche, ma c’è questo senso di comunità, c’è questo attaccamento. Un allenamento costante alla mediazione, all’amore per l’altro.