“Ero fragile e non sentivo la terra sotto i piedi”, “quando vivi uno stato di presenza molto forte, non ti preoccupi del ‘ci vedo, non ci vedo’”, sintetizziamo così le emozioni contrastanti del viaggio di vita compiuto da Daniele Matterazzo e Simone Salvagnin.
C’è anche il viaggio, quello inteso in senso letterale, che li ha visti attraversare l’Islanda per 400 km, con in spalla uno zaino da 30 kg, senza acqua e un clima balzano, a volte beffardo.
Li abbiamo incontrati in occasione dell’evento “Due amici, due disabilità, un obiettivo, un sogno comune. I racconti dell’Iceland Traverse” – voluto dai senatori Giusy Versace e Antonio Guidi, di concerto con l’intergruppo parlamentare sulle disabilità, in vista dell’impegno che l’Italia ha assunto con la presidenza del G7 in materia di disabilità, tenutosi al Senato della Repubblica, lo scorso 25 gennaio – e ci hanno disegnato con le parole un mondo diviso a metà: quello del viaggio, dell’avventura e quello della quotidianità in cui, inesorabilmente, “c’è sempre qualcuno che decide per qualcun altro”.
Due storie che, a un certo punto, convergono. Da una parte c’è Daniele, fundraiser sportivo, guida ambientale ed escursionista, nonché la prima persona con disabilità fisica ad attraversare l’Islanda da nord a sud in completa autonomia e in solitaria. Dall’altra c’è Simone: atleta paralimpico della nazionale italiana di paraclimbing, prima persona al mondo con ipovisione grave a compiere questo tipo di traversata in autonomia, ossia senza supporto logistico. Hanno camminato al suo fianco in questa avventura Lucia Vissani, presidente dell’associazione Emozionabile ETS (con cui Daniele e Simone collaborano), e l’esploratore Davide Ferro.
E se Daniele ha scoperto come ritrovare la terra sotto i piedi che gli mancava muovendosi in avanti e mettendo un piede dietro l’altro, Simone ha respirato forte e non si è mai fermato, trovando in esperienze senza compromessi la risposta.
Nessun eroismo, ma un racconto che merita di entrare nel cuore degli altri perché ispira, perché restituisce prospettive e alimenta una luce, spesso spenta dai limiti, da un “approccio culturale che dovrebbe essere più aperto”.
A noi di risorse.news Daniele e Simone hanno aperto le porte sul loro passato, sul loro presente e sul loro futuro.
È iniziata così: le storie di Daniele e Simone
Nella Sala Convegni di Palazzo Madama, Daniele e Simone hanno condiviso dei pezzetti di storia, così che i presenti e il pubblico virtuale potessero risolvere il puzzle del loro incontro, delle loro avventure e ammirarne il risultato.
“Camminare, come lo sport in generale, è stato lo strumento di cui mi sono servito per riprendermi la mia vita dopo l’incidente che ho avuto a 15 anni” ha chiarito subito Daniele dopo aver mostrato le immagini della sua esperienza in Islanda. Perché a cambiargli la vita è stato un incidente, una cosa accaduta per caso; una disgrazia inattesa.
“Sono stato in coma e ho avuto una sub amputazione del braccio sinistro, un trauma cranico e vari danni agli organi interni. Sono stato in ospedale circa sette mesi tra rianimazione e chirurgia plastica; ho iniziato un lungo calvario di dieci anni in cui la mia adolescenza è venuta a mancare. Ho avuto 17 operazioni. Nel tempo ho potuto, quindi, sperimentare le varie condizioni della mia disabilità. Difficoltà interiori, che sentivo mie. Ero fragile, non sentivo la terra sotto i piedi, non sapevo cosa volevo essere e dove volevo andare”.
Poi, è arrivato al punto di rottura: “A trent’anni sono entrato in una crisi profonda. Mi sono ritrovato in un angolo e ho dovuto cercare una via che potesse colmare questo vuoto. Ho provato tante strade, alcune giuste alcune sbagliate, ma non mi hanno portato a niente. Un giorno, guardando un film alla tv, The Way – il cammino verso Santiago, sono rimasto folgorato”.
Perché quella pellicola “mi ha fatto capire che dovevo recuperare i pezzettini che avevo perso negli anni. Così sono partito per il cammino di Santiago con le migliori intenzioni, un cassetto pieno di sogni e tanta paura perché camminare non era la mia passione. Mi sono messo alla prova: 1000 km e trenta giorni. Ho avuto modo di ascoltarmi, perché ero in solitaria. Ho capito che certi limiti che avevo erano solo nella mia testa, ero io a sedimentarli dentro di me e a dargli ascolto.
Dopo questa esperienza ho continuato, sono diventato una guida ambientale escursionistica”.
Per me, per gli altri
E questa nuova vita ha aperto altre strade, ha consentito a Daniele di uscire dal proprio seminato, ed entrare in un campo nuovo, in cui l’obiettivo era tenere i piedi ben saldi sulla terra e tendere la mano a chi, come lui in passato, si era perso. “Con il tempo è venuta poi l’esigenza di non farlo solo per me; ogni anno ho creato un progetto – come l’ultimo, la traversata dell’Islanda – affiancando tematiche sociali care. La prima iniziativa, ad esempio, l’ho fatto per il reparto di pediatria di Padova, per restituire l’aiuto che avevo ricevuto all’epoca del mio incidente.
L’idea è quella di continuare sempre più; il bello è, anche quando vivo momenti di difficoltà personali, sapere che dietro i miei passi ci sono persone che hanno bisogno. Penso quindi a quanto sono fortunato di aver salva la vita, ma anche di aiutare gli altri attraverso le mie passioni”.
Anche perché la traversata è stata pensata e progettata con finalità sociali e per promuovere quanto indicato nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, in particolare per veicolare e promuovere il messaggio espresso dall’art. 30, che sancisce il diritto alla partecipazione delle persone con disabilità alla vita culturale, alla ricreazione, al tempo libero e allo sport. Dunque, il singolo che si ritrova a promuovere comunità; la comunità che accoglie il singolo e che va a caccia dell’avventura.
“In Islanda sei solo con te stesso”
“L’Islanda ha rappresentato qualcosa di nuovo – ha poi detto Simone Salvagnin invitato a raccontare la propria storia – Io sono un atleta paralimpico nazionale di arrampicata sportiva, generalmente mi cimento, da 12/13 anni con l’attività più alpinistica e di spedizioni. Ho attraversato qualche continente in bicicletta o in tandem, ho salito qualche cima, ma non avevo mai attraversato un’isola a piedi. E che isola! Non è un cammino, è una spedizione, perché significa gestire la rotta, gestire un clima inclemente ed essere esposto agli elementi. Io l’ho definita un’esperienza senza compromessi. In Islanda sei solo con te stesso. Quello che facciamo è cercare un contatto molto forte, senza compromessi, proprio con noi stessi, nel disagio, con la fatica. L’Islanda è stata una terra che in alcuni momenti ho odiato, in altri ho amato”.
Simone Salvagnin: “l’arrampicata ha sempre fatto parte di me”
“Quando vivi uno stato di presenza molto forte, non ti preoccupi del ‘ci vedo, non ci vedo’, ‘ho il braccio, non ho il braccio’. Usi tutto te stesso per procedere”, e non c’è compromesso che tenga.
“Io nasco vicino alle piccole Dolomiti – ha proseguito – sviluppo la mia fisicità in ambienti montani, tra rocce e boschi. L’arrampicata ha fatto parte di me fin dall’infanzia. Ho iniziato a perdere la vista per una retinite pigmentosa, che è una malattia degenerativa, a 13 anni ed è andata giù fino ai 27. Adesso sono più o meno 13 anni che ho una percezione di sagome e ombre che non è considerata vista. Avevo lasciato l’arrampicata, ma poi ho ripreso quella passione. Nel 2010 è diventata un’attività professionale”. Per Simone è arrivato lento, e ha insediato le sue passioni; può averlo ferito, ma mai sconfitto.
INTERVISTA A DANIELE MATTERAZZO E SIMONE SALVAGNIN
A margine dell’evento, Matterazzo e Salvagnin hanno rilasciato un’intervista a noi di risorse.news.
Entrambi vi siete dovuti confrontare con la disabilità in età adolescenziale: se poteste incontrare il Daniele e il Simone di allora, cosa gli direste?
Daniele: Gli direi di non aver paura, alla fine la vera difficoltà quando si vive una disabilità, magari in tempi prematuri, al di là che non c’è mai un’età che consenta di viverla nel migliore dei modi, sta nel misurarsi con la società. Quando ci imbattiamo in questa casistica, con la disabilità a quell’età, che non rivediamo così facilmente nei nostri coetanei, l’approccio deve essere positivo.
Simone: A me stesso direi di crederci, di non mollare. Alla fine, la maggior parte dei limiti li creiamo noi. Direi a me stesso di vivere il più possibile e cercare di fare più esperienze possibili in modo da sperimentare, con l’obiettivo di conoscermi di più e di diventare sempre più stabile e più sicuro.
Durante il tuo intervento, Simone, hai parlato di un’esperienza senza compromessi. Quali sono questi compromessi?
S: Nel caso dell’Islanda mi riferivo al fatto che non avevi escamotage; non hai ripari, non hai nulla e devi accettare tutto quello che ti capita. Per me è un po’ una metafora. Spesso cerchiamo di costruirci attorno un’infrastruttura sia mentale, sia pratica per proteggerci da qualcosa che non sappiamo. Non sai mai cosa capiterà domani. Vivere senza compromessi vuol dire essere disponibile a qualsiasi cosa succeda.
D: In quella terra i compromessi non c’erano, come dice Simone. Queste avventure ci fanno affrontare quello a cui normalmente non andiamo incontro. Bisogna essere pronti a tutti e accettare ciò che viene.
E invece nella quotidianità quali sono? Ci sono situazioni in cui vi ritrovate e pensate “c’è ancora tanto da fare”?
S: La cosa che io penso in merito ad esempio al concetto di inclusione è non pensare che i limiti non esistano o che alcune persone abbiano delle specifiche rispetto ad altre. Ma cercare di avere un approccio culturale più aperto e più disponibile, più attento in generale. I compromessi li trovo più spesso nel vivere sociale che durante queste avventure. Anche perché queste avventure noi le scegliamo, ci buttiamo dentro e siamo anche disposti a pagare lo scotto di essere dentro, quindi di fare sacrifici, c’è anche la non riuscita, perché tu parti ma non è detto che poi riesci.
Nella quotidianità, spesso questo non è dato da un limite oggettivo pratico ma da qualcosa di relazionale, qualcuno che pensa che tu non puoi, da qualcuno che decide per qualcun altro. Ecco, mi auguro e spero che questa cosa venga sdoganata sempre di più nei prossimi anni.
Adesso viviamo anche in un momento abbastanza felice dove gli atleti paralimpici sono comunque più ascoltati e portati come esempio, ma c’è ancora parecchia strada da fare. Finché ancora ci sarà l’invisibilità o il sensazionalismo non ci sarà mai quella via di mezzo che serve alle persone con disabilità. Noi abbiamo fatto qualcosa che ci ha consentito di essere qui e che quindi qualcuno lo ha riconosciuto come degno di nota, però esiste un mondo di tante persone che vivono normalmente e sono eroi nella quotidianità. Per me è più facile essere in ambienti estremi che vivere una giornata normale. Si capovolgono così i parametri.
D: Ogni volta che torno dai miei viaggi ho difficoltà a rapportarmi con la società, nel senso che alcune esperienze ti regalano cose profonde, poi una volta tornati a casa ritroviamo sempre gli stessi modelli. Solo quando sono in viaggio mi sento veramente vivo, tutti i giorni. Tornare da questi viaggi mi dà la forza per tenere tot mesi la vitalità alta per poi pensare ai prossimi.
A proposito di questo, dopo l’Islanda: i prossimi passi?
D: Nuove terre, nuovi cammini. Cambierò la latitudine. Mi piacerebbe tentare la Groenlandia, una traversata in questa terra artica. Poi ho un altro progetto che inizierà a maggio con un attraversamento della Lapponia finlandese.
S: Io ho un progetto legato alla ricerca della mia vetta interiore, perché spesso la mia vitta coincide raramente con le montagne che salgo. Il mio momento più alto spesso è durante il cammino. C’è odore di Himalaya, c’è la stagione agonistica e c’è altro: una cordata con un amico e atleta spagnolo. Un nuovo capitolo rispetto al tema dell’arrampicata. Poi ci sono tutte le attività che portiamo avanti con Emozionabile.
“Nessuno dei due si annoia, la strada l’abbiamo imparata, la porta sappiamo qual è: adesso dobbiamo solo tenere alta la forza di volontà per continuare a riaprirla”.