Il terremoto Arabia Saudita ha scosso il mondo il calcio, ridefinendo schemi internazionali che sembravano ormai essere consolidati e inossidabili. Ma non non solo. Anche in altri ambiti sportivi è in atto una vera e propria rivoluzione che negli ultimi giorni – e questo pare essere solo l’inizio – ha portato anche Rafa Nadal a firmare per diventare ambasciatore dell’Arabia Saudita nel tennis.
Contratti milionari, spazi interessanti, opportunità di conferire allo stato arabo un nuovo titolo e un nuovo ruolo. Spostare il baricentro è quindi l’obiettivo numero uno del principe Mohammed bin Salman che, durante un’intervista rilasciata a Fox News, ha riferito come dal proprio punto di vista sia totalmente irrilevante lo sdegno in merito all’approccio applicato in campo sportivo dai Paesi arabi e ha anche chiarito che “Se lo sportwashing farà aumentare il mio PIL dell’1%, allora continuerò a farlo”. Un modo, decisamente diretto, per sterilizzare le polemiche ed evitare equivoci.
Cos’è lo sportwashing
Ma bisogna fare un passo indietro e indagare le ragioni che portano a tanto marasma. Perché il maiorchino Nadal e il portoghese Ronaldo, rappresentano solo l’ultimo tassello di un puzzle. Lo sportwashing non si traduce nella firma di un campione, ma in un processo strutturato che parte dall’analisi del problema. Un sistema quasi aziendale: individuare le cause, lavorare sull’opinione pubblica, coinvolgere la stampa, blindare gli eroi.
Come spiega Amnesty International, si tratta di una strategia utilizzata da stati o governi che, al fine di distogliere l’attenzione su quanto accade alle proprie comunità in termini, ad esempio, di violazione dei diritti umani, acquistano club, organizzano eventi sportivi di portata globale o sponsorizzano gli stessi.
Amnesty International riporta alcuni esempi: l’acquisizione del Newcastle da parte dell’Arabia Saudita, l’accordo con David Beckham come testimonial dei mondiali di calcio in Qatar, il Paris Saint-Germain gestito dagli Emirati Arabi Uniti. Senza dimenticare le sorprese, amare per il calcio europeo, riservate dalle ultime sessioni di mercato, come i trasferimenti di nomi altisonanti: Ronaldo, Neymar, Benzema, Brozovic, Carrasco, Firmino, Kante e Koulibaly.
Perché funziona
Il Movimento chiarisce anche perché lo sportwashing funziona così bene. In primo luogo, “il grande potere economico che solitamente questi stati detengono per l’organizzazione di eventi così importanti”; secondo poi “l’idea, antica quanto diffusa, che ‘lo sport non deve mescolarsi con la politica’”, come ha sostenuto Bernie Eccleston.
In sintesi, lo sportwashing ha un pubblico di riferimento abbastanza specifico. Ovvero, punta a blandire gli appassionati, i tifosi, insomma una fetta di fattore umano che di fronte all’evento in sé non approfondisce gli effetti collaterali e che non intende associare l’aspetto ludico a quello politico e/o emergenziale. Ricoprono, e pare superfluo doverlo specificare, un ruolo fondamentale anche i media che non sempre riescono o non vogliono trasferire le informazioni nella loro interezza.
Sportwashing: non solo calcio
Ma il calcio non è l’unico universo graffiato dallo sportwashing. E lo racconta bene lo stesso Bin Salman, interrogato sulla Coppa del Mondo per Club 2023 (dello scorso dicembre) e i Giochi asiatici che saranno ospitati dall’Arabia Saudita nel 2029.
“Quando si vuole diversificare un’economia – ha spiegato il principe a Fox News, ancora in riferimento alle accuse di sportwashing – bisogna lavorare in tutti i settori: minerario, infrastrutture, manifatturiero, trasporti, logistica, tutto questo […] Una parte è il turismo e se vuoi sviluppare il turismo, una parte è la cultura, una parte è il settore sportivo, perché devi creare un calendario”. Dunque, il braccio di ferro è tra la crescita di un Paese, se la situazione è vista da un determinato punto di vista, e lo sportwashing, se interpretata dall’altro.
D’altra parte la presa in carico e la gestione di competizioni dirompenti come il LIV Golf e il coinvolgimento dell’icona del tennis Nadal, parlano chiaro: il confine tra un prima e dopo è stato tracciato. L’Arabia Saudita, così come gli altri Paesi arabi, si muovono su larga scala e non più di soppiatto.
Nadal firma e Amnesty International insorge
Un contratto milionario quello somministrato a Rafa Nadal – che ha saltato gli Australian Open a causa di un infortunio – per diventare ambasciatore della Saudi Tennis Federation. Poche ore dopo l’ufficialità è arrivata la reazione di Amnesty International che ha tuonato: “È solo l’ultimo capitolo dell’incessante operazione di ‘sportswashing’ da parte dell’Arabia Saudita. Nadal piuttosto parli apertamente dei diritti umani”. Il campione non ha replicato. Sulla pagina Instagram del 37enne solo un post in collaborazione con STF. Poi i commenti, tanti, di chi non si aspettava questa novità.
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Peter Frankental, direttore degli affari economici di Amnesty International UK, ha espresso grande disappunto, osservando: “Il nuovo ruolo di Rafa Nadal è solo l’ultimo capitolo dell’incessante operazione di ‘sportwashing’ da parte dell’Arabia Saudita. Dal tennis al calcio, dal golf alla boxe, le autorità saudite hanno speso miliardi nei loro sforzi per riclassificare il Paese come una superpotenza sportiva e distogliere l’attenzione da uno spaventoso primato in termini di diritti umani“.
Poi ha proseguito: “Sotto il governo di Mohammed bin Salman, le autorità saudite hanno incarcerato dozzine di attivisti pacifici, effettuato un numero record di esecuzioni e coperto sfacciatamente il macabro omicidio di Jamal Khashoggi. Come altre stelle dello sport che accettano lavori ben retribuiti in Arabia Saudita, esortiamo Nadal a parlare apertamente della situazione dei diritti umani in Arabia Saudita”.
Sportwashing: il “no” di Federer
Ma, come se ad agire fossero tentacoli furbi e svelti, l’Arabia Saudita conquista uno spazio sempre più importante nella Formula 1, stringe accordi con l’ATP e offre le proprie strutture per ospitare altre competizioni calcistiche come la Supercoppa italiana che vede in finale Inter e Napoli. Un’escalation inarrestabile che, secondo Amnesty International, può essere arginata.
Il Movimento, in proposito, spiega: “A tutto questo però c’è modo di opporsi. Le organizzazioni possono fare ricerche, attivismo, adovcacy; gli sportivi e le sportive possono dare un segnale”.
E così, riavvolge il nastro e torna al 2018 quando Roger Federer rifiutò l’invito a un enorme evento di tennis voluto e gestito dal governo saudita. In quella occasione, Federer non ebbe dubbi: “Mi hanno contattato, sì. Perché ho rifiutato? Perché non voglio giocare. Va bene così. Mi piace giocare. Sono felice di fare altre cose e non voglio giocare lì in questo momento. Quindi, ho deciso in fretta”.
Resta quindi un nodo da sciogliere che interseca l’etica, la morale e un conto in banca stellare. Un nodo stretto, forse troppo.