Lo scorso 27 luglio Alfonso Emanuele de León ha pubblicato, su Il Sole 24 ore, un’interessante riflessione su quelli che sono stati i risvolti del fenomeno dello smart working sui giovani in cerca di lavoro. È di tutta evidenza come la possibilità di poter svolgere il proprio lavoro comodamente da casa sia un vantaggio per tutti, soprattutto per gli orari che risultano essere estremamente più flessibili. A discapito di ciò non è tutto rose e fiori.
Come descritto dal manager che ha firmato il pezzo per il più importante giornale economico italiano, sono molteplici le difficoltà generate dallo smart working. Un esempio? L’assenza di un mentoring in grado di guidare fisicamente il neoassunto nello svolgimento dei propri compiti. Si evidenzia, inoltre, una diminuzione della socializzazione, sia professionale che extra-professionale. L’ambiente di lavoro consente, oltre all’apprendimento di nuove competenze, anche la creazione di una rete di conoscenze che possono proseguire anche al di fuori del contesto lavorativo.
Lo smart working in Italia: lo studio della CGIL
In riferimento a quanto detto, risulta interessante l’inchiesta nazionale in merito alle condizioni dei lavoratori svolta dalla CGIL nazionale, coordinata da Daniele Di Nunzio in rappresentanza della Fondazione Di Vittorio e condotta in collaborazione con le strutture della Confederazione.
Le indagini si sono basate su un campione di 31 mila lavoratori con caratteristiche contrattuali tra loro eterogenee. Di questi il 21% dichiara di svolgere il proprio lavoro da casa. Ciò che sorprende è che di quest’ultimi solo il 15,9% ha un’età inferiore ai 34 anni.
Questo studio ipotizza che la causa di una percentuale così bassa di giovani che usufruiscono dello smart working sia legata alla diffusione di contratti atipici e brevi, destinata generalmente a persone fino ai 34 anni.
Lo smart working per i giovani: sì o no?
Il Massachussetts Institute of Technlogy (MIT) e l’Università della California hanno condotto uno studio, guidato da economisti, su alcuni lavoratori indiani appena assunti, allo scopo di indagare la variazione della produttività tra il lavoro in smart working e quello in presenza.
I risultati hanno evidenziato che la produttività di quei giovani a cui è stato chiesto, in maniera casuale, di svolgere il proprio lavoro da casa è inferiore del 18% rispetto a chi invece è rimasto in ufficio. Probabilmente tale percentuale sarebbe stata minore nel caso in cui fossero stati presi in considerazione i “vecchi” dipendenti, abituati da sempre a lavorare in ufficio. Infatti, come sostenuto da David Atkin, professore di economia al MIT, «c’è una grande differenza tra qualcuno che comprende già bene il lavoro e conosce la cultura dell’azienda».
Come sostenuto da Alfonso Emanuele de León, il lavoro in presenza resta una chiave necessaria per la crescita non solo professionale, ma anche personale del dipendente. È proprio vivendo il contesto lavorativo giornalmente che un individuo riesce ad arricchirsi e sviluppare nuove competenze che nello smart working verrebbero a mancare.
Che cosa stanno facendo le grandi aziende statunitensi?
A dimostrazione di quanto affermato, sembrerebbe che la direzione intrapresa tra le grandi aziende, come Zoom, Disney e Amazon, sia quella di ridurre i giorni di smart working a disposizione del personale.
In conclusione, risulta evidente come lo smart working sia un’opportunità da tenere in considerazione per via dei vantaggi che può offrire, ma non deve essere una priorità nella ricerca di un impiego soprattutto per i giovani alle prime armi.
di Sara Ciarcià ed Elena Lodi,
Volontarie Servizio Civile