Dal 1 Luglio 2023 per il mondo dello sport cambierà tutto, e non cambierà nulla. Tutto in quanto molte delle disposizioni fino ad oggi vigenti per la gestione associativa finiranno in soffitta. Nulla perché lo spirito che da sempre ha alimentato lo sport italiano non è, e non poteva certamente essere, oggetto di intervento legislativo. Anzi. A dire il vero potremmo parlare, finalmente, di un vero e proprio riconoscimento per chi, volontariamente e senza pretendere nulla in cambio, ha sempre offerto e continuerà ad offrire le proprie capacità, il proprio tempo e le proprie risorse, alla collettività. Non esisteranno più le “collaborazioni” sportive come fino ad oggi utilizzate (e abusate) venendo così di fatto abrogata la lettera m) di quell’art. 67 del Testo Unico Imposte sui Redditi da sempre croce e delizia per il mondo sportivo.
La riforma del lavoro sportivo
La riforma del lavoro sportivo è servita certamente ad aprirci gli occhi, a dare un senso a quanto, di scomodo per molti, recentemente ha ribadito anche la granitica giurisprudenza della Cassazione: lo sport non può vivere in una bolla di favore che travalichi la salvaguardia e il rispetto dei principi costituzionali. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Il lavoratore sportivo meritava e merita oggi più che mai rispetto e tutela. Non di meno non possono continuare ad essere sacrificate la salute e la sicurezza nello svolgimento delle sue mansioni per il solo fatto che ci siamo nascosti dietro una qualificazione che nulla diceva a proposito.
Così come non potranno essere sviliti il diritto al riposo e ad un giusto compenso. Non dimentichiamoci poi che tutti siamo chiamati a concorrere alle spese pubbliche in ragione della nostra capacità contributiva. Che lo sport faccia bene, anzi benissimo, alla Nazione è un dato di fatto.
Il ruolo dell’associazionismo
Che l’associazionismo svolga un ruolo sussidiario per colmare le carenze del welfare state è, a mio avviso, concetto in parte superato trovando nello sport anche ragioni ulteriori che sconfinano, spesso e volentieri, nel libero mercato. Se così fosse non potremo pertanto chiamarci esenti anche da una giusta contribuzione per non alterare le regole del mercato. Il vero nodo, o se vogliamo, la sfida a cui siamo ora chiamati sarà quindi non tanto comprendere la tipologia contrattuale applicata a questa o quella figura che presta la propria attività a fianco dell’ente ma a ripensare chi sia il volontario, al suo ruolo di rottura con il passato.
Tornando alla domanda iniziale. Preso atto che chiunque riceva una qualche forma di remunerazione (economica, sociale, reputazionale), si schiera dalla parte di chi da qualcosa, per ricevere qualcosa, è fondamentale che gli Enti si domandino, una volta per tutte, le ragioni profonde che hanno spinto le persone a stringere un patto associativo e che dalla risposta valutino se le attività siano o meno capaci di portare cambiamento per il bene comune, non relegando il ruolo dell’associazione a semplice pedina nel vortice della competizione a chi sopravvive per la gestione degli spazi o per erogare corsi ai ragazzi. Come detto cambia tutto e non cambia nulla.
Quanto ai “costi”, ancorché le voci di bilancio dovranno essere necessariamente rimodulate, questi potrebbero essere addirittura irrilevanti per moltissime realtà. Per quelle, giusto per capirsi, che si sono strutturate su base volontaria o per quanti già avevano inquadrato le collaborazioni come rapporti lavorativi. Sarà invero un problema per chi riteneva possibile e sostenibile richiedere un rimborso per attività di fatto lavorativa.
Sul punto ritengo il problema, più che dell’Ente, sia per coloro i quali dovranno decidere se percorrere la strada del lavoro autonomo o se vi siano spazi per un rapporto subordinato. Ma sono valutazioni che ognuno dovrà fare con questo o quel Consiglio Direttivo, prima ancora che in coscienza.
Ha contribuito alla redazione della news l’Avvocato tributarista Paolo Rendina