Immigrazione ed accoglienza un binomio che in Italia è diventato imprescindibile, un po’ perché lo Stivale è, per la sua naturale posizione di centralità all’interno del Mediterraneo, il “frontline” del fenomeno migratorio che da decenni imperversa dalle coste dell’Africa.
Italia “prima linea” della migrazione ma anche prima accoglienza per decine di migliaia di disperati che in tutti i modi cercano di abbandonare le proprie terre scappando da morte, fame, guerra e malattie, rincorrendo il sogno di una vita migliore, molto spesso miraggio prodotto non dal sole africano, ma da chi, a cominciare dai trafficanti di vita umane, specula su questo fenomeno.
Italia centro di accoglienza, non solo perché frontline ma anche per una sua naturale e tradizionale capacità di “accogliere lo straniero” che, soprattutto nel meridione, è una caratteristica endemica di un territorio che, tra mille drammi e problemi, non riesce a dimenticare di sorridere allo sconosciuto che bussa alla porta.
Accoglienza: il Mare Nostrum…
D’altronde il Mediterraneo per noi “figli di Roma” è ancora oggi il mare nostrum, un mare che unisce non divide. L’accoglienza, quindi, non è un problema culturale per gli italiani, ma, come spesso capita in una nazione ricca di umanità ma povera di capacità, diventa un problema strutturale, sistemico, di organizzazione.
E così, nella terra del paradosso, anche il sistema accoglienza non può che subire l’effetto
contradditorio tipico italiota. Un sistema interamente scaricato sulle strutture più periferiche dello Stato: Comuni e Prefetture, che sono costrette, a loro volta, a caricare le responsabilità totalmente sul terzo settore, chiamato a fare i classici “salti mortali” per tenere in piedi un sistema che in piedi non potrebbe stare.
Ed è chiaro che in questo disordine chi vuole “sfruttare” il momento ha gioco facile, ma questa è un’altra storia. Il sistema di accoglienza in Italia è organizzato su tre livelli: Soccorso, prima assistenza e identificazione (che avviene negli Hotspot), prima accoglienza (affidata ai CARA ed ai CAS) e seconda accoglienza (che si basa sui SAI).
Ogni livello presenta le sue criticità, ma ciò che più appare paradossale è la distanza tra ciò che viene garantito ai beneficiari dei CAS rispetto a chi finisce in un centro SAI. Questo livello si basa sul Sistema di accoglienza e integrazione (Sai, istituito dal Ministero dell’Interno e affidato ad Anci, l’associazione dei comuni italiani). Con il Sai si ritorna ai principi che avevano ispirato lo Sprar, quindi ad un tipo di accoglienza meno assistenziale e più rivolta all’integrazione con percorsi che partono dalla conoscenza della lingua italiana e arrivano ad esperienze sociali, sportive e lavorative.
Chi può accedere al sistema
Al sistema possono accedere sia i richiedenti asilo che i titolari di protezione (coloro che hanno già visto accolta la richiesta di asilo e riconosciuto il diritto a una protezione internazionale). Il Sai è un sistema pensato bene e che funziona, avrebbe, forse, bisogno di più risorse, ma anche questa è un’altra storia.
Parallelamente ai Sai sono stati sviluppati i Cas (Centri di accoglienza straordinaria) nati per sopperire, in modalità straordinaria, le “emergenze numeriche”. Le Prefetture se si esauriscono i posti disponibili nei sistemi di prima e seconda accoglienza, possono con accordi diretti aprire Cas, in cui, proprio per la natura “straordinaria” non sono previsti percorsi di accoglienza ma semplicemente vitto e alloggio. Hanno costi elevati, soprattutto quelli fissi, e un sistema di remunerazione “a riempimento”. E quando la straordinarietà diventa ordinarietà il sistema salta.
Si crea lo spazio per situazioni “leggere”, gestioni facili e magari anche per qualche speculazione, ma questa poi non diventa più storia ma si trasforma in cronaca.