Durante l’ultimo anno si è verificato un fenomeno a cui, considerando l’andamento dell’economia mondiale, nessuno si sarebbe aspettato di assistere: le Grandi dimissioni. I primi dati significativi sono arrivati da oltreoceano: negli Stati Uniti, tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, sempre più persone hanno scelto di lasciare il proprio lavoro. Pian piano la tendenza si è diffusa in ogni Paese, fino a giungere anche in Italia. Un altro effetto collaterale della pandemia, si direbbe.
Tuttavia, sono diverse le motivazioni che hanno spinto lavoratrici e lavoratori – per lo più dipendenti – a cercare nuovi stimoli e nuove opportunità. Uno dei fattori che sembra essere trainante è la ricerca del benessere mentale e lavorativo; un’espressione dai margini ampi, difficilmente riconducibile a una sola causa. Diversi studi, comunque, hanno cercato di indagare in maniera specifica le motivazioni e la correlazione tra il fenomeno delle Great resignation, Grandi dimissioni, e il deterioramento della salute mentale e fisica in alcuni posti di lavoro.
Si è rilevato che esiste una corrispondenza e che quindi l’idea di riprendere la propria vita in mano non rappresenta solo la conseguenza di mesi di smartworking e di lavoro intermittente, ma proprio una presa di coscienza. Trovare condizioni più favorevoli consente di salvaguardare la propria salute mentale e fisica, incentiva a crescere sotto il profilo professionale e, contestualmente, a produrre di più.
Grandi dimissioni: un fenomeno inarrestabile nonostante la crisi economica
Un passo indietro, le Grandi dimissioni. Già nell’agosto del 2021 gli istituti di ricerca e statistica negli Stati Uniti rilevavano che sempre più persone lasciavano il posto di lavoro, in molti casi senza avere un piano B, dunque preferendo l’essere inoccupati anziché portare avanti un impiego che non avevano più voglia di svolgere. Il Dipartimento del Lavoro USA, in quel periodo, pubblicò dei dati effettivamente inattesi: 4,6 milioni di americani volontariamente avevano lasciato il lavoro.
Chi pensava che si trattasse di un fenomeno transitorio ha dovuto ben presto ricredersi. Ne è una prova considerevole la crisi di diverse attività che si sono ritrovate a corto di personale. Uno studio dell’IBM, Institute for Business Value, in cui sono state coinvolte 14mila persone, ha evidenziato che, su scala globale, un dipendente su cinque si è dimesso durante il 2021. In termini generazionali: Generazione Z al 33% e Millennial al 25%. Sono numeri rilevanti anche perché consentono di inquadrare le fasce d’età più avvezze al cambiamento.
Work – life – balance
Lo stesso studio, inoltre, riporta anche le motivazioni che hanno spinto lavoratrici e lavoratori a compiere un tale passo. La prima posizione è occupata dal work-life-balance; il 51% del campione intervistato ha ritenuto necessario cambiare il proprio stile di vita per ottenere un nuovo equilibrio in cui il perno non fosse il lavoro. Seguono la possibilità di crescita professionale e la stabilità dell’ambiente lavorativo. L’ultimo caso si riferisce alla cattiva gestione del team e delle problematiche comuni a ogni ufficio, ma forse non più sostenibili; liti, pressione, mobbing, esclusione da progetti, scarsa considerazione e così via, tutti elementi che, al netto dei fatti, confluiscono nel burnout.
Nel primo semestre del 2022 in Italia oltre un milione di persone ha dato le dimissioni. A confermarlo sono i dati diramati dall’Osservatorio sul Precariato dell’INPS. Prima di procedere, però, è necessario aprire un’ulteriore parentesi. Durante gli ultimi mesi, il Bel Paese ha registrato una crescita occupazionale; tuttavia, si tratta della somministrazione di contratti precari, a tempo determinato.
Questo è un elemento in più di cui tenere conto andando avanti nell’analisi. Dunque, in un contesto economico sbiadito e alla presenza di contratti che non offrono sicurezze, c’è chi comunque sceglie di rischiare. Rispetto allo stesso periodo dello scorso anno si è registrato un aumento di dimissionari del +31,73%. La verità è che si trova, anche se non sembra realistico, lavoro più facilmente, considerato l’aumento della domanda da parte delle aziende.
Certo, servirebbe un ulteriore approfondimento sul tipo di impiego, sul genere, sull’età e sulle possibilità in base al grado di istruzione. Nel caso specifico, ciò che interessa è comprendere le dinamiche che portano a lasciare una posizione lavorativa, talvolta anche “sicura”. Nel caso nostrano, sono lo stress – e tutto ciò che ne consegue – e la mancanza di prospettive di crescita, lavorativa e salariale, che spingono alle dimissioni.
Dimissioni e burnout
Stando a uno studio statunitense del 2022, Anatomy of Work di Asana, sette dipendenti su dieci si sono ritrovati a fare i conti con il burnout: un collasso mentale e/o fisico derivato dalla frenesia che si respira sul posto di lavoro. Una vera e propria sindrome che si sviluppa quando il carico di lavoro o l’insistenza da parte di colleghi e superiori diventa insostenibile. Anche in Italia il fenomeno è dilagante. Soprattutto tra alcune categorie, come ad esempio medici e commessi; lavoratrici e lavoratori che oltre a dover gestire il rapporto con i colleghi devono saper regolare quello con i pazienti/clienti.
La sintomatologia legata al burnout, talvolta, diventa anche grave: problemi gastrointestinali, depressione, cefalee e malattie cardio-vascolari. Senza contare che si va inevitabilmente incontro a un maggiore assenteismo e all’incapacità di restare attenti e vigili durante le ore lavorative. Ecco perché si arriva a decidere di cambiare vita, di esplorare nuove realtà che possano offrire prospettive differenti.
I dati
In chiusura, i dati del Global Workplace Report, diffusi dalla società di analisi e consulenza Gallup. Su 150 mila intervistati in 160 Paesi il 59% ritiene di essere molto stressato a causa del lavoro; il 60% non si sente stimolato e non ritiene di essere creativo, anzi, si limita a fare il minimo indispensabile. In Italia solo il 4% degli interrogati sente di avere un ruolo rilevante nel proprio posto di lavoro, per cui asserisce di non essere motivato. Il 49% afferma di essere molto stressato e il 45% non nasconde di avere non poche preoccupazioni.
Tali osservazioni sono utili a giustificare la concomitanza dei due fenomeni: Grandi dimissioni e burnout. La sfida delle aziende, arrivati a questo punto, è quella di sapersi ricalibrare sulle aspettative e sulle esigenze delle e dei dipendenti, ma non è semplice. L’aumento salariale, la stimolazione creativa, la gestione corretta dei team e di tutte quelle situazioni che possono ledere alla salute mentale, sono elementi complessi che richiedono un intervento repentino, ma allo stesso tempo sistematico.